mercoledì 22 novembre 2017

Etiopia 2017 - Giorno 12 - Preghiere di roccia

Sono passati molti mesi da quando ho scritto il giorno 11. Ma i viaggi, quelli dentro l'anima, restano in attesa. Aspettano, come gli Afar. Restano dentro di te, pazienti, come la Dancalia. Sanno che ci sarà un momento nel quale tu tornerai da loro.

Gheralta. Ieri sera ho fatto la doccia, dopo molti giorni. Impari che non è scontato farsi la doccia. Sensazione di provare una cosa nuova, quasi mi stupisco dell'acqua che scorre sul mio corpo.....

Il mio orologio biologico ormai si è regolato sull'alba. Il corpo riprende il suo ritmo naturale, ancestrale, di albe e tramonti.
Il buio artificiale della finestra chiusa mi sembra una gabbia.


Ma l'alba che fa arrossire lieve le gote delle montagne lontane mi riporta all'estasi della bellezza.


L'altopiano è il regno dei sicomori, tronchi e radici intrecciate alla roccia e alle vite degli uomini. Alberi che si arrampicano, e uomini e donne che si arrampicano.



Ci si arrampica verso il Cielo, verso i monasteri rupestri. Verso le impervie pareti dell'anima.
Chiese scavate nella roccia, dai monaci, a mani nude.
Donne che salgono e scendono con gli abiti della festa, da luoghi dove noi facciamo fatica a salire in tenuta da trekking.
Loro salgono e scendono, cantano, parlano a voce alta. Sulle schiene portano bambini, e vassoi, e cibo per la festa.



Al monastero si sale all'alba. Attraverso kanyon stretti tra le rocce rosse e la luna.




Un cammino che toglie il respiro.
La pendenza, l'altezza, il vuoto sotto. Il vuoto dentro. L'apnea per la bellezza.


E durante la salita ci si ferma a riposare. E a giocare. Sulla parete.
Perchè la salita è una festa. La vita è una festa.
Il gioco ti fa riprendere fiato, nella salita verso la montagna della vita. E dopo riparti più lieto, e la salita sembra più dolce.


In cima l'uomo ha costruito i suoi rifugi per l'anima, per proteggerla dai predoni, dal male, dall'inganno. Li ha costruiti col sudore e con la sua arte.
Mariam Kerket.



Là salgono le donne a battezzare le vite appena nate. Bianche, quasi trasparenti, creature irreali nella penombra dell'incenso.



Fuori il sole è talmente abbagliante che ti brucia gli occhi, la mente, le mani. Non puoi vedere se non dentro di te. 


E se hai non hai paura del vuoto, se non hai paura di guardare troppo lontano, se non hai paura di sentirti un granello di sabbia attacato a una parete, che il vento può trascinare via in ogni momento, se non hai paura puoi arrivare a Daniel Kerket.




Devi piegarti. Devi chinare la testa per entrare. Devi voltare le spalle al vuoto. Una porticina stretta abbarbicata alla parete. Entrare è come rientrare nel grembo della Terra, nel grembo della Madre.


La Madre senza volto ma con grandi occhi per vedere nel profondo di te.



Poi esci di nuovo nel sole accecante, e con i canti delle donne scendi di nuovo sulla Terra, che ti accoglie quasi con sollievo.



Suonano al vento centinaia di campanelle nelle chiese ortodosse. Accolgono il soffio lieve della tua presenza, festeggiano la bellezza che le circonda, ringraziano la fede semplice della loro gente.



Un altro giorno sull'altopiano. Nel cuore e nell'anima del Tigray.

Tempo di bilanci. La mente corre ancora alla Dancalia, vuoto e pieno assoluti, vuoto in cui galleggiano miraggi che diventano reali, e poi di nuovo svaniscono.
Come la vita un grande spazio vuoto, che si riempie di illusioni. Cerchi di uscirne ma non puoi.
Come il lago Assalè, l'uomo cammina alla ricerca di una via di fuga. Ma non la troverà mai. Non esiste.

Domani il viaggio continuerà. Nella vita e su questo altopiano.